Pagina:Tarchetti - Fosca, 1874.djvu/215

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fosca 213

l'istante, egli mi si avventò rovesciando indietro il capo, io fui sollecito a ritrarmi senza parare, e a riavventarmi subito, prima che avesse avuto tempo di rimettersi in guardia. Lasciai scendere la sciabola leggermente, egli vide il pericolo, deviò a destra, e lo colpii alla spalla.

Gettò la sua arma con dispetto, rampognando i suoi secondi di aver acconsentito alla scelta della sciabola, e dicendo che il freddo gli irrigidiva le mani, e rendeva impossibile il servirsene liberamente. La sua ferita era benché profonda, non grave.

Insistette perché ci battessimo alla pistola. Nessun consiglio poté distoglierlo da questo proposito.

Levammo a sorte cui toccasse sparare per primo: la fortuna favorì il mio avversario.

Fummo collocati a trenta passi di distanza. Le pareti parallele del fosso che era angustissimo davano all'occhio una direzione sì giusta e sì facile, che io mi tenni perduto. Avvicinai la mia arma al petto per coprirne il cuore, e mi collocai un poco di fianco per offrir minor bersaglio possibile. Fu dato il segnale, il colonnello sparò, la palla passò fischiando senza colpirmi.

Egli riprese la sua posizione, io distesi il braccio, sparai alla mia volta senza mirare; egli vacillò un istante, lasciò scivolare la pistola di mano, e cadde rovesciato. Io non so cosa avvenisse di me in quell'istante. Il mio respiro si arrestò, le mie vene parvero scoppiare, il mio cuore schiantarsi; una tenebra mi passò davanti agli occhi, i miei muscoli si contrassero con uno spasimo atroce, brancicai un momento come per afferrarmi a qualche cosa, proruppi in un urlo acuto, disperato, straziante, quale non aveva inteso mai uscire da petto umano, se non forse da quello di Fosca, e caddi fra le braccia del dottore che era accorso in mio aiuto.

Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto