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104 | paolina. |
e non per trarne motivo di sfiducia sulla sorte dell’umanità, ma per alleviarli almeno con una parola compassionevole.
Se la sua indole non era più così lieta e vivace, essa non aveva però l’impronta di quella mestizia continua con cui si sembra accusare instancabilmente la divinità dei nostri mali; quella tristezza inalterabile che gli uomini retti reputano giustamente una gran colpa al cospetto di Dio: il suo sorriso così temperato dalla sventura era anzi più dolce, e se il suo volto era alcun poco impallidito, l’avversità lo aveva reso più gentile, segnandolo colle traccie del pensiero e della benevolenza. Essa obbliava tutto lavorando.
Il lavoro indefesso, eseguito con animo contento e deliberato, adeguato alle nostre forze, è il più gran movente di felicità, perchè l’uomo è nato per il lavoro, come è nato per essere felice. — Se migliaia di creature non lo sono, non accusiamo sfacciatamente il cielo, ma noi stessi. — La coscienza del lavoro c’inspira il sentimento della dignità individuale, sembra crearci un diritto all’esistenza e alla protezione della società a cui offriamo le nostre braccia, e dare ai nostri animi quella vera e sentita nobiltà che vorrebbe usurparsi sotto altri aspetti l’uomo ricco ed ozioso. Chi non comprende ciò per meditazione, lo sente per istinto, nè vi ha volto di operaio onesto, intelligente ed attivo che non porti scolpiti i caratteri della dignità umana e non riveli un animo pago e contento.
Ma se in noi sta la possibilità del lavoro, i profitti non sono regolati dalla natura che in vaste proporzioni, e le loro suddivisioni per individuo appartengono esclusiva-