Pagina:Tartufari - Roveto ardente, Roma, Roux, 1905.djvu/22

Da Wikisource.

— 22 —


Flora, impietrita, non perveniva a rendersi conto della realtà. Credeva di sognare e avrebbe voluto destarsi; ma frattanto l’essere informe era giunto all’ultimo gradino ed era già sul punto di varcare la soglia. Una grande luce abbarbagliante e implacabile divampò senza transazione entro il cervello di Flora. Suo padre si era gettato nel vascone; suo padre aveva voluto annegarsi ed era il cadavere di suo padre che quei tre uomini le riportavano.

Ella agitò le braccia in alto, annaspando con le dita contratte, quasichè stesse per affogare anche lei e un sibilo inarticolato, senza cadenza o misura, cominciò ad uscirle di tra lo stridore dei denti sbattuti. Nessuno le badava: forse non l’avevano nemmeno vista.

Venne distesa in terra una coperta e sopra la coperta i tre uomini deposero il cadavere del l’annegato, che giacque con le braccia aperte e il capo ripiegato verso la spalla sinistra, come se il frale volesse con quella posa dolente significare tutto il fastidio della grama esistenza.

Il vecchio conte Innocenzo Vianello, camminando al seguito del funebre convoglio, entrò più eretto, più fiero, con le nari gonfie di collera e gli occhi fiammanti; mentre le mascelle, forte mente segnate sotto la pelle rugosa, si urtavano senza tregua, come nella masticazione perenne di qualche sostanza viscida che gli si attaccasse al palato. La chioma folta e canuta era squassata nel gesto energico di diniego che il vecchio conte ripeteva col capo, forse per dire silenziosamente, superbamente di no alla sventura, la quale in vano gli aveva distrutto il ricco censo, invano gli aveva insozzato il blasone con le turpi gesta