Pagina:Tartufari - Roveto ardente, Roma, Roux, 1905.djvu/46

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che fremito di vita serpeggiasse al dissotto del l’intatta coltre. Nell’aria dolce e quieta, alcuni tenui fiocchi volteggiavano ancora, sostenuti dalla stessa leggerezza loro imponderabile e vaganti a guisa di petali di gelsomino che lo zefiro avesse sottratti al davanzale di un chiuso balcone e che natassero, forse a messaggio di morto amore, verso un altro balcone deserto.

Il disco della luna, circonfuso di vapori, ora appariva nitido in mezzo a una larga chiazza di terso azzurro, or traluceva appena dietro il velo cinereo di nuvolette fuggitive.

Flora poneva cautamente il piede nella lista sottile tracciata dalle altrui orme, allorché, alzando gli occhi, scorse un piccolo lume, intermittente e mobile come il palpito di una lucciola, inoltrarsi verso di lei.

Capì subito che un uomo le camminava incontro e che quest’uomo teneva il sigaro acceso; dopo alcuni passi, l’odore squisito del tabacco, insolitamente aromatico, la fece accorta di chi si trattava.

Si arrestò e protese in avanti la lanterna. L’altro si arrestò a sua volta, il piccolo fuoco del sigaro disparve e una voce sonora domandò con tono imperioso:

— Chi va là?

Flora, tremando un pochino, rispose subito:

— Sono io. Flora Vianello.

— Bel modo di spaventare la gente — esclamò Germano, lietamente sorpreso, avanzandosi con passo affrettato verso la giovanetta.

— Buona sera — disse Flora, studiandosi di nascondere il suo turbamento e sollevando all’altezza del viso la lanterna, che segnò un cerchio aurato sopra il candore del suolo.