Pagina:Tartufari - Roveto ardente, Roma, Roux, 1905.djvu/74

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— --- Cantiamo! Cantiamo! Cantiamo! — Cantate pure, maledette bestiacce — bor bottò Germano incollerito, sentendo che cedeva al sonno. — Cantate pure; ma verrà 1' inverno e cre perete! Le cicale all'inverno non ci pensavano e da ogni ramo, da ogni virgulto, dalla cima dei grossi alberi, dalle ripiegature dei grossi tronchi, da ogni frasca ricurva, da ogni gruppo di fronde, daH'incartocciamento di ogni foglia, il coro stu pidamente dispettoso, ripeteva: — Fa caldo! Fa caldo! Fa caldo! e, dopo una sosta, s'incitava a riprender la nenia, gridando; — Cantiamo! Cantiamo! Cantiamo! E Germano si addormentò di un sonno dolo roso, di quel sonno che rende assolutamente morte le membra, e impedisce ogni movimento più lieve, pur lasciando il pensiero sospeso e vagante in una semilucidità. Al di là delle palpebre soc chiuse le forme ondeggiavano con parvenze di fantasime e i sommessi rumori della campagna gli giungevano all'orecchio traviati, dando al ronzìo di un insetto il fragore di onda vorticosa, e al fruscio delle fronde il suono misterioso di voci bisbiglianti a complottare un delitto. Germano si lamentava nel sonno a quando a quando. Perchè nessuno veniva a scuoterlo dal torpore? Egli aveva perfetta coscienza del luogo e dell'ora; egli sapeva di dormire al riparo della quercia; sapeva che si sarebbe destato fra poco; sentiva il canto delle cicale; si ricordava perfino di tenere in fresco nella grotta alcune bottiglie di vino vecchio da bersi alle sei con alcuni amici, che dovevano arrivare dalla città; eppure