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134 TRAGEDIA NON FINITA

SCENA SECONDA

GALEALTO, CONSIGLIERO


Galealto Ahi! qual Tana, qual Istro, e qual Eusino,

Qual profondo Ocean con tutte l’acque
Lavar potrà la scellerata colpa,
Ond’ho l’alma, e le membra immoade, e sozze?
Vivo anco dunque, e spiro, e veggio il Sole?
Nella luce degli uomini dimoro?
Son detto Cavalier, son Re chiamato?
E chi mi serve, e chi mi onora, e cole?
E forse ancor, chi m’ama? Ah certo m’ama
Colui, che del mio amor tai frutti coglie.
Ma che mi giova, oimè? s’esser mi pare
Di vita immeritevole, e se stimo
Che indegnamente a me quest’aria spiri,
E ’ndegnamente a me risplenda il Sole?
Se l’aspetto degli uomini m’è grave,
Se ’l titolo regal, se ’l nome illustre
Di Cavalier m’offende? s’ugualmente
I servigj, e gli onor disdegno, e schivo,
E s’in guisa me stesso odio, ed aborro,
Che nell’esser amato offesa i’ sento?
Lasso! io ben me n’andrei per l’erme arene
e Solingo, errante, e nell'Ercinia folta,
O nella Negra selva, o in quale speco
Ha più profondo il Caucaso gelato,
Mi asconderei dagli uomini, e dal Cielo.
Ma che rileva ciò, se a me medesmo
Non mi nascondo, oimè? Son io, son io
Consapevole a me d’empio misfatto.
Di me stesso ho vergogna, ed a me stesso
Son vile, e grave, ed odioso pondo.
Che pro, misero me! che non paventi
I detti, e ’l morinorar del volgo errante,
O l’accuse de’ saggi, se la voce
Della mia propria coscienza immonda
Mi rimbomba altamente in mezzo il core;
S’ella a vespro mi sgrida, ed alle squille?
Se mi turba le notti, e se mi scuote
Dagl’infelici miei torbidi sogni?