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canto sesto 113


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     Né giá ritorna ove fuggir vedea
quei ch’ingannò la fiorentina preda,
ché vittoria stimò vile e plebea
cacciar gente che fugga e ’l campo ceda:
ma, dove in mezzo la battaglia ardea,
contra ’l Potta sen va; come se ’l creda
bere in un sorso, e la cittá sua tutta
ne’ sterquilini suoi lasciar distrutta.
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     Guido scontrò, che de la pugna usciva
con mezza spada e una ferita in testa,
e a medicarsi al padiglion se ’n giva
per man del suo barbier mastro Tempesta.
Indi trovò, che ’l suo signor seguiva,
messa in terror la ravignana gesta;
le si fe’ incontro, e con superbo grido:
— Tornate, disse, indietro, o ch’io v’uccido. —
65
     Ed a l’alfier che ’l rimirava fiso,
senz’altro moto far, come chi sdegna,
fulminò d’un man dritto a mezzo ’l viso:
— Cosí, dicendo, d’ubbidir s’insegna. —
Riman colui del fiero colpo ucciso,
ed egli di sua man spiega l’insegna.
Alzano i ravignani allor le grida,
e ’l seguono animosi ove gli guida.
66
     Il Polta, che tornar vede la schiera
che dianzi fuor de la battaglia usciva,
rivolto a Tomasin ch’a lato gli era:
— Per vita, gli dicea, de la tua diva,
ad incontrar va’ tu quella bandiera,
che se ’n riede a la pugna onde fuggiva,
e mostra il tuo valor, spiega i tuoi vanti
contra quei malandrin scorticasanti. —

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