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Pagina:Teofrasto - I Caratteri.djvu/106

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teofrasto

spilorcio va a chiedere perfino mezzo obolo d’interesse. Credo però che ἐπὶ τὴν οἰκίαν non soltanto indichi che lo spilorcio recasi in casa del debitore ma che ci vada per riscuotere la mesata di pigione, cosí come «nel mese» allude al fatto che ci va a mese non scaduto ma durante il mese prima della scadenza.

Il greco ha διφᾶν, e a qualcuno esso è sembrato vocabolo sospetto perché poetico. Ma è in Callimaco ed è in Eronda, e dunque era dell’uso comune come lo erano anche altre parole cosiddette poetiche.

Alcuni codici hanno «che son caduti a terra», altri «che giacciono a terra». La questione dei datteri è grave però, e molti hanno espunto il «dattero» osservando che datteri in Grecia non ce n’erano, e Pasquali ha perfino creduto di scorgere nel «dattero» la patria d’origine dell’... interpolatore; che son poi ridicolezze del voler troppo vedere e sentenziare. Il fatto è che nella «Storia delle piante», libro terzo, capitolo terzo, paragrafo quinto, Teofrasto dice che in Grecia le palme non possono condurre le frutta a «piena» maturità, e però il traduttore Leondarakis commentava intelligentemente: «da ciò ben si rileva l’estrema spilorceria di costui che non permette a nessuno di non toccare neppure i frutti delle palme i quali cadono dagli alberi ancora immaturi e non buoni a mangiarsi». Neppure a farlo apposta, anche nella «Storia delle piante» Teofrasto parla prima dei fichi e subito dopo dei datteri. E si chiamavano in Grecia συκοτραγίδεις i poveri che si sfamavano con fichi. In latino la frase teofrastea sarebbe da tradurre nec vel olivam vel palmulam.

Plinio, nella lettera sesta del secondo libro, racconta di aver mangiato presso un tale che era a un tempo sordidus e sumptuosus, e imbandiva a se stesso leccornie, opima, agli altri minutaglia, ceteris vilia et minuta ponebat.

In Aristotele κυμινοπρίστης è lo spilorcio che taglia fin le rape del comino per non dare la pianticella intera; e un adagio di Erasmo s’intitola cumini sector. Le medesime cose suppergiù raccomanda Euclione nell’«Aulularia» di Plauto alla serva Stafila «se chiedono un coltello, il mortaio, il pestello, la mannaia o le stoviglie che i vicini sogliono chiedere in prestito... ».

Forse θυηλήματα è glossa, giacché tutte le cose prima mentovate son roba da sacrifizio: e dunque la glossa spiegherebbe che roba esse sono e per quale uso.

A Pasquali dà fastidio ἰωμέναςἰ; «arrugginite», rubigine obsitas, obductas, perché perfetto; ma io non capisco perché, una volta che il perfetto significa che lo spilorcio non s’è curato di far pulire le chiavi.

Leggo naturalmente μηνῶν, correzione di Enrico Etienne. I codici in genere hanno μικρῶν: e sarebbe perciò «vestiti piú corti


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