Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/436

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LIBRO TERZO 3g^ Spettacolo più atroce di questo Roma non vide mai. Il capo e le mani di quell’oratore che tanti rei e la Repubblica tutta avea tante volte salvata, appese su que’ rostri medesimi dai quali avea egli spiegata la (divina sua eloquenza. Il tirannico poter di Antonio e de’ suoi colleghi non potè impedire che tutta Roma non inorridisse a tal vista, e che col pianto universale non dimostrasse apertamente il dolore ch’essa provava per la crudele uccisione di sì grand’uomo. Il nome di Cicerone fu sempre venerabile, per così dire, e sacro presso i Romani. Finchè visse Augusto, pare che gli scrittori di quel tempo appena osassero di favellarne con lode, poichè il lodar Cicerone era lo stesso che riprendere Augusto, il quale avevane permessa, o fors’anche voluta la morte. In fatti Livio, come raccogliamo da Seneca il Retore (Suasor. 6), il quale qualche frammento ci ha conservato de’ suoi libri smarriti; Livio, dico, non aveane parlato con quella stima che a tant’uomo pareva si convenisse, ma avea nondimeno confessato che uomo grande egli era stato, e ingegnoso e degno di eterna memoria, e tale insomma, in cujus laudes sequendas Cicerone laudatore opus fuerit. Ma dopo la morte di Augusto, chiunque degli antichi scrittori parla di Cicerone, non solo ne parla in sentimenti di altissima stima, ma sembra quasi rapito da entusiasmo sollevarsi sopra di se stesso per celebrarne le lodi. Così Vellejo Patercolo, benchè scrivesse a’ tempi del crudele e sospettoso Tiberio, dopo aver raccontata la morte di Cicerone, trasportato da sdegno contro di