Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo II, Classici italiani, 1823, II.djvu/667

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G3o Liisno che sono l’unico saggio del suo stile che ci sia pervenuto, noi non possiamo a meno di non maravigliarci come mai sia stato egli onorato di sì grandi elogj. Leggasi la sua parlata a Valentiniano e a Teodosio pel ristabilimento del mentovato altare, che è inserita anch’essa tra le sue Lettere (l. 10, ep. 54), e che deesi credere certamente la miglior cosa ch’ei componesse , e veggasi se possa ad uom saggio cadere in mente di paragonarlo con Cicerone. Ma tal era il pensare di questi tempi. Durava ancora in alcuni il gusto di un parlare concettoso e raffinato che erasi introdotto già da tre secoli; e a ciò aggiugnendosi una cotale rozzezza e di pensare e di scrivere, che dal conviver co’ Barbari, de’ quali era piena l’Italia , necessariamente si contraeva , formai asi un certo stile di nuova foggia fiorito insieme ed incolto, che da chi è avvezzo alla lettura de’ buoni autori non si può udir senza stomaco. Quindi ottimamente dice Erasmo: Amino pure Simmaco quelli a cui piace di parlare noiosamente anzichè bene (in Ciceron). Avea Simmaco composte e recitate ancora più orazioni, come i Panegirici di Massimo e di Teodosio, che di sopra abbiam rammentati. Di un’altra sua orazione ci parla in una sua lettera ad Agorio Pretestato (l. 1, ep. 52); ed è verisimile che altre ancora in altre occasioni ne facesse. Il Tillemont (l. cit) dice che le sue orazioni non gli riusciron troppo felicemente; ma a dir vero, non parmi che sia questo il senso delle parole di Simmaco, ch’egli cita in pruova della sua asserzione. Simmaco dice: Unum quippe