Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VII, parte 4, Classici italiani, 1824, XIII.djvu/353

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TERZO 3315 periodi, e quel sì frequente uso di epiteti non può a meno che non renda languida l’orazione, nè lasci luogo a quella commozione di affetti che debb’essere il primario fine di un oratore. Nella lingua latina, al contrario, si avea innanzi agli occhi, oltre assai egregi esemplari, il padre della romana eloquenza; e benchè molti degli oratori di questo secolo pecchino in ciò che fu difetto allora comune a parecchi scrittori, cioè di por.mente più alla sceltezza delle parole che alla nobiltà e alla forza de’ sentimenti, ciò non ostante vedesi ancora in essi or più or meno felice l’imitazione di Cicerone. Della maggior parte di quelli che nel perorare nell’una o nell’altra lingua ottenner più fama, si è già detto nel decorso di questo tomo. Qui dunque ci basterà accennarne i nomi, e dire più stesamente d1 alcuni pochi de’ quali non si è ancor ragionato. Comincieremo dagli oratori italiani, indi passeremo a’ latini, e conchiuderemo per ultimo col favellare degli oratori sacri. II. Leonardo Salviati, Benedetto Varchi, Claudio Tolommei, Pietro Segni, Bernardo Davanzati, Lorenzo Giacomini, Bartolommeo Cavalcanti, Scipione Ammirato, e moltissimi altri, l’orazioni de’ quali si leggono o nelle Prose fiorentine, o nella Raccolta di Orazioni pubblicata dal Sansovino, sono scrittori che, quanto alla lingua, posson esser proposti a modello di purità e di eleganza. Ma essi non vanno esenti dal difetto poc’anzi accennato, il qual fa che a’ loro ragionamenti manchi quella forza che è il maggior pregio di un oratore. Ardirò io d’affermare che anche le si rinomate orazioni di