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Ne ero indignato contro me stesso, impaurito. Mi pareva d’essere disceso al livello di quel bottegaio che era stato là a spiare cupidamente per sorprendere, se gli fosse riescito, una nudità provocante.
La mia coscienza si allarmò; i nervi si eccitarono; la fantasia prese il volo. Mi parve di essere condannato ad adorare quella donna; di essere incapace di mantenere il mio giuramento, di essere destinato a perdere me stesso ed altri come il povero Marco. Mi sentii debole, maledetto, e, sotto quell’impressione, ti scrissi quella lettera un po’ stravagante.
Però, te l’ho detto, era un falso allarme. La signora dopo il mio avviso ha chiuse le gelosie del bagno, e non se ne vede più nulla.
Nel pomeriggio poi si mette a lavorare sopra un balcone accanto al bagno. È una sua abitudine. Stava sempre là anche prima, dev’essere il balcone del suo salotto. Veste sempre con eleganza; legge, ricama, guarda nel cortile con aria distratta, sembra che si annoi.
Ma non alza mai gli occhi verso la mia finestra, e non ha punto l’apparenza d’un’eroina da romanzo.
Qualche volta osservo il suo abito accollato, il suo anti-pittoresco solino inamidato, la cravatta legata a fiocco, e mi riesce impossibile figurarmi che là sotto, c’è quella spalla meravigliosamente bianca e rotonda. Ero esaltato, e forse l’ho veduta male, o piuttosto troppo bene.
Questa signora è un po’ magra; e la sua fisonomia, che, mentre leggeva e declamava, avvolta nell’accappatoio bianco, m’era sembrata altera, ora mi sembra fredda ed ironica. Tutta la nobiltà l’attingeva dalla pettinatura greca, dall’accappatoio drappeggiato