Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/110

Da Wikisource.

atto secondo.—sc. i. 105

Mischie tu parli?
Azaria.                                        A che varrian lusinghe?
Di questi audaci figli del deserto
Scritta è, nel libro del Signor, la sorte.
Chi dagl’imperatori della terra
Omai può i ceppi ricusar, se, in ardue
Montagne inaccessibili, a selvaggia
Vita non vive, e ognor la man sull'elsa?
Ester.Tu dunque, fido a tua promessa, al campo
Mai non tornar senz’Ester! comun teco,
Si, vo’ il periglio sempre. Oh, pargoletta
Perduto il padre non avessi! ei spesso
Dicea che al fianco suo cinta d’usbergo
Avriami adulta, onde Israel, sospinto
Dal forte esempio, a racquistar Sïonne
Armasse un dì sin le femminee destre.
Quante dolce sariami a te far scudo,
Emularti, difendere i tuoi giorni
E quei del figlio!
Azaria.                                        Oh di me degna!
Ester.                                                            Ah, credi,
L’odio, che in te pel padre mio nutriro
I tuoi congiunti, odio era ingiusto! ei grande
Il core avea!
Azaria.                              Del valor suo fia eterna
La rimembranza: nè in te danno il pio
Cieco amor filïal — ma cieco ad altri
Esser non lice ove d’Iddio un nemico
L’abborrire è dover. — Perdona. Acerbo
Mal mio grado ti son: meste memorie
Sì fausto di non turbino: tua colpa
Non fu del padre il traviar: sei mia!
T’amo! nè di tua stirpe altro m’è noto.
Ester.Pur l’infelice Eleazar....
Azaria.                                                  Ten prego;
Ei dorme nella tomba, e più l’oblio
Che il rammentarlo giova: astio paterno
Non eredai: ma testimon vivente