Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/259

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254 gismonda da mendrisio

Deh, pertanto non sia che abbandonarle
Debba Gismonda: altrove andiamo.
Ariberto.                                                                      Altrove,
O Gabriella, andrem: tale è mia mente.
Di Gismonda all’insania, ahi, qui s’aggiunge
Nel cor d’Ermano tracotanza e invidia,
Che tollerar non posso. Ad aspre liti,
Al sangue forse mi trarria. Miei dritti
Sosterrò col perverso in altri tempi,
Ma non vivente il genitor. Già troppo
La veneranda sua canizie afflissi.
Finchè respira il genitor, — e oh lunghi
Anni respiri! — il vil qui segga, erede
Si presuma, m’insulti, io contra lui
La spada mai non alzerò.
Gabriella.                                                     Frattanto
Ove ricovrerem? Quando?
Ariberto.                                                     M’affida
De’liberi stendardi veronesi
Il campion Turrisendo: ei sovra il lago
Di Garda ha inespugnabile castello:
A lui ci avvierem. — Né se miei dritti
Or qui volessi sostener, gran tempo
A noi vittoria arrideria, tal oste
L’imperador può rovesciar su noi.
Ma scarsa è la presente oste: disfarla
Agevol fia, disfarla è d’uopo. E quando
Ceffo nemico più non sia che irrida
Il partir nostro, e schiuso torni il varco,
Un’altra volta, o fida assocïata
A tutti i miei dolori, esuleremo.1

  1. Partono non vedendo Gismonda che s’avanza.