Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/56

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atto secondo. — sc. i. 51

Tenda lasciai, le spose mie, l’ossequio
De’miei fratelli che, me lungi, ahi, tutto
Mi rapiranno, e, se a cercar riedessi
Il mio retaggio, troncherian miei giorni.
Dieci tribù ver’tue bandiere io primo
Condussi; chè un Iddio per le tue labbra
Favellar mi parea; svenata avrei
Del mio cor la diletta a un cenno tuo.
Pari agli altri mortali oggi te deggio
Scoprir? Non del Profeta era lo spirto
Che t’animava! il grand’Eufomio imporre
Leggi alla terra non dovria? Tu piangi!
Tu nel mio sen celi arrossendo il volto!...
Morir vuoi tu?... Queste fedeli schiere
E il tuo Almanzor sovra inimiche piagge
Abbandonar?
Eufemio.                              No, mia virtù smarrita
Si risveglia a tai detti. Europeo nacqui,
Ma il tradimento e il natio nome abborro.
Patria è il suol che fraterne alme produce;
D’Africa figlio, a te fratel mi vanto,
A te, Almanzor, cui, più che vita, speme
Alta deggio di gloria. In me natura
Ponea due fiammne in arder pari, immenso
Desio di gloria, e amor! Posa il mio spirto
Non avrà, finchè i troni a’ piedi miei
Non miro, e a’ pie’ di Lodovica. Infinto
Linguaggio teco sdegnerei: seguace
Del Coran me non fea la sovrumana
Dottrina sua, ma lo splendor dell’armi
Per Maömetto combattenti: — Pace
All’Occidente un sacerdote intíma;
Vil pace, dissi, onde codarda Roma
De’ Cesari trattar più non sa il brando:
Guerra invece e trionfi all’Orïente
Maömetto proclama: esso è de’ forti
Il profeta verace, il mio profeta!
Ma, il sai; d’amore esso pur anco ardea