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PREFAZIONE | XXXIII |
Il kommós è dunque il tramite pel quale il canto passa dalla sede corale, lirica, alla sede drammatica.
Questo dilagar della parte musicale sembra che ristagni in Sofocle. Sofocle appartenne a quella specie d’artisti — ce n’è di sommi — i quali, anziché cercare forme nuove, consacrano tutte le forze del loro genio a portare alla somma perfezione quelle tradizionali. Egli aveva un senso della forma meraviglioso, infallibile. Senza smuovere i cori dalle loro sedi tradizionali, li portò ad una complessità ed una perfezione insuperabili, curando soprattutto le parole, che qualche volta in Eschilo sono un po’ affrettate. E, d’altronde, sebbene la sua opera vada specialmente insigne per il perfetto equilibrio di tutti gli elementi, appare evidente che il suo primo interesse è rivolto alla parola. Certo, anche nei suoi drammi la pàrodos tende a prolungarsi in kommós (Aiace, Elettra, Filottete, Edipo a Colono); e nel kommós la parte cantata dai personaggi assume grande importanza. E certi brani cantati, pure appartenendo a sedi legittimamente destinate al canto, sono già vere monodie, del tipo che vedremo poi trionfare in Euripide (Antigone, 781-881, Trachinie, 994-1043); ma, nel complesso, con Sofocle rimane essenzialmente fissato un tipo di dramma in cui trionfano il contrasto drammatico e la pittura psicologica dei personaggi, trionfano l’eloquenza e la poesia nel suo senso piú perfetto e preciso, di espressione dei sentimenti e delle passioni per mezzo della parola.
E, pur se talvolta c’è un accenno della musica a strapotere, non bisogna dimenticare che, se Sofocle cominciò la sua carriera il 468 (col Trittolemo), Euripide entrava nell’agone dell’arte, con Le Peliadi, già nel 455: sicché per buona parte della sua produzione, e certo dall’Antigone (442, data quasi sicura), se pure non già dall’Aiace (antico, ma data incerta) potè avere sotto gli occhi i lavori del giovine ingegnosissimo rivale, che non rimasero senza influsso su la sua arte.