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XXXVI EURIPIDE

la soverchiava; e il complesso riusciva ad avere una fisionomia piú d’opera musicale che d’opera poetica.

E non già del tipo eschileo antico, nel quale la musica pur soverchiava, ma solo nei lunghi e lunghissimi corali: sicché l’insieme poteva, su per giú, paragonarsi ad un moderno oratorio; bensí d’un tipo nuovo, nel quale la parte cantata era affidata in larga misura ai personaggi. E il coro, stremato nelle sue sedi legittime (la pàrodos essenzialmente sparita e gli stàsimi ridotti), intervenendo nelle sedi drammatiche, non era piú protagonista, ma personaggio di sfondo, ombra che serviva a mettere in luce la parte degli attori.

Il processo continua, su per giú, in tutti gli altri drammi. Inutile enumerarne qui una per una le varie tappe, perché sono registrate nelle singole prefazioni, e perché nella mia versione sono strettamente rispettati i passaggi ritmici, indici dei trapassi musicali, e dunque del passaggio delle parti recitate alle parti cantate. Basti che quasi interamente melodramma è anche lo Ione. La pàrodos (1-236) è tutta convertita in canto. Cantato è il terzetto fra Creusa il pedagogo e il coro (764-799): vera e lunga monodia il brano di Creusa 859-922; duetto lirico il brano 1445-1509. Ed anche qui, se si computano i canti corali delle sedi legittime, la parte della musica è grande. E si deve aggiungere che vi spesseggiano, come in tutti i drammi dell’ultima maniera, i tetrametri trocaici. Era un ritorno alle forme antiche, quando la tragedia era piú danzata (il tetrametro trocaico era metro di danza). Queste parti, dunque, erano un che di mezzo fra la parola parlata e la parola cantata: sicché venivano ad aumentare la parte musicale del dramma.

Ma tutto ciò riguarda la configurazione formale del dramma. In realtà, la invasione del canto nelle sedi drammatiche importava una modificazione assai piú sostanziale. Importava