Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/113

Da Wikisource.
110 EURIPIDE

contro chi se ne bea, piene di brama.
E figli aveva; e me sposa a tuo figlio
diede, sí ch’io nella magione d’Ercole
a gloria entrai. Ma già vanito è il tempo
della fortuna, è spento, o vecchio; e a morte
siamo presso tu ed io, son questi figli
d’Ercole, ch’io, come una chioccia i suoi
pulcini, accolgo sotto l’ali. E d’essi
or l’uno or l’altro mi si fanno intorno,
m’investon di domande: «O madre, parla:
nostro padre dov’è, lungi da Tebe?
Che fa? Quando ritorna?» E nella vana
fanciullesca lusinga, il padre cercano.
Io storie invento, e coi discorsi illudo
la lunga attesa. Ma se l’uscio scricchiola
mai, trasalisce ognuno, e in piedi salta,
per balzare del padre alle ginocchia.
Ed or, quale speranza, o quale terra
trovar sapresti, per salvarci, o vecchio?
A te gli sguardi io volgo. Oltre i confini
della terra passar di sotterfugio,
noi non potremo: guardano i passaggi
scolte di noi piú forti; e negli amici
piú non ci resta di salvezza speme.
Il tuo disegno a noi dichiara adesso,
quale ch’ei sia; ché, se morire è d’uopo,
non convien, per viltà, soverchio indugio.
anfitrione
Piacevole non è consigli simili,
o figlia, offrire a cuor leggero, e pompa
di zelo far, quando non c’è pericolo.