Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/186

Da Wikisource.

ERCOLE 183

Primo, da un uomo io nato son che uccise
il vecchio padre di mia madre, e, ancora
contaminato, ne sposò la figlia,
mia madre, Alcmèna; e allor che i fondamenti
saldi non sono d’una stirpe, è forza
che sopra i figli la sventura cada.
E Giove, poi — qual che sia Giove — in odio
mi generava ad Era; e non offenderti,
o vecchio, tu: ché te padre, e non Giove
reputo. E mentre ancor suggevo il latte,
la compagna di Giove avventò contro
le fasce mie, perché morissi, due
serpenti occhi di fiamma. E allor che pubere
muscoleggiò tutto il mio corpo, è d’uopo
dire i travagli che affrontai? Leoni,
tricòrpori Tifoni, o vuoi Giganti,
e sterminai, pugnando, dei Centauri
le quadrupedi frotte, e l’Idra, cagna
di cento teste, che, recise, ancora
cresceano; e mille e mille altre fatiche;
e fra i morti discesi, ed il tricípite
cane, custode dell’Averno, a luce,
per obbedire ad Euristèo, condussi.
E questa fu l’ultima prova, o misero
me: che i miei figli uccisi, e di sciagure
colmai la casa. E a tale estremo or sono,
che non posso abitar nella mia Tebe
senza empietà. Se resto, a quale sagra
andrò, d’amici a quale accolta? Io sono
contaminato, e niun mi parlerà.
O in Argo andrò? Se dalla patria io sono
bandito! O forse a qualche altra città?
M’avranno appena conosciuto, e bieco