Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/226

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IPPOLITO 223


nutrice

Tutto ho tentato, e a nulla io sono giunta.
Né dal mio zelo io pur desisterò,
sí che tu di persona assista, e possa
veder con gli occhi tuoi qual è il mio cuore
verso i signori sventurati. — Orsú,
dimentichiamo, cara figlia, entrambe,
i discorsi di prima; e tu piú mite
divieni, e spiana il sopracciglio, e cangia
il corso dei pensieri; ed io, se feci
qualche impronto discorso, or vi rinuncio,
e meglio parlerò. Se tu d’un male
intimo soffri, siamo qui noi donne
per curare il tuo morbo: ove sia tale
la doglia tua, che possa dirsi agli uomini,
dilla, e sarà significata ai medici. —
Ebbene? Taci? Perché mai? Tacere
non devi, o figlia, ma d’error convincermi,
se pure ho torto. Ma se dico bene,
tu dai miei detti esser convinta. Parla,
qui rivolgi lo sguardo. Oh me tapina!
Vane le nostre pene, o amiche, furono:
lungi siam come pria dal nostro assunto:
né detto allor poté molcirla, né
or si convince. Me ben sappi questo,
e poi, del mare piú inflessibil móstrati:
se tu morrai, sarai la traditrice
dei figli tuoi, li priverai dei beni
paterni, affè della regina Amàzzone,
di cavalli maestra, onde un padrone
nacque ai figliuoli tuoi, bastardo, eppure