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Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) IV.djvu/123

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120 EURIPIDE


agamennone

Sta bene: ora entra nella tenda: il resto,
se fortuna ci assiste, andrà pel meglio. —
Ahi, che farò, misero me? Di dove
prender le mosse? A che giogo fatale
avvinto son! M’ha prevenuto il Dèmone,
che d’ogni astuzia mia stato è piú scaltro.
Oh quanto giova esser del volgo! Piangere
posson senza riguardo, e ciò che vogliono
liberamente dir; ma per me, nobile,
tutto ciò sconverrebbe. Al viver nostro
dà le norme il decoro; e della turba
siamo gli schiavi. Ed io, cosí, di piangere
or mi vergogno, e poi, misero me,
mi vergogno di non piangere, quando
sono caduto in cosí gran sciagura.
Che potrò dire alla mia sposa? come
l'accoglierò? come oserò lo sguardo
levar su lei? Mi die’ l’ultimo colpo,
venendo senza esser chiamata. Eppure,
che accompagni la figlia è ben diritto,
ch’essa a nozze la guidi, ed offra a lei
ogni piú caro dono, e me sorprenda
nella tristizia mia. Ma la fanciulla...
Che dico, ahimè! fanciulla? Essa d’Averno
sarà sposa fra poco. Oh, che pietà!
Mi par d’udirla già, ch’essa m’implora:
«Dunque tu, padre mio, m’ucciderai?
Simili nozze celebrar tu possa,
e chi tu prediligi!» — E Oreste qui
sarà, che grida non intelligibili
leverà, ché non parla, e pure, io bene