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Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) IV.djvu/84

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IFIGENIA IN AULIDE 81

vito a sua insaputa del suo nome. Ma poi, ad onta di qualche blanda protesta, fa tacere e pietà e indignazione. E non si riesce a distruggere l’impressione che su questo mutamento abbiano un po’ influito la sedizione dell’esercito acheo, la defezione dei Mirmidoni. Ma entrambe queste circostanze, e, quasi direi, anche la remissività d’Ifigenia, avrebbero piú che mai eccitato, piú che mai indotto a perseverare nella sua magnanima decisione l’Achille d’Omero, o, ancor piú, un Achille riconcepito da Eschilo.

Ma questa inflessibile durezza è ben lontana dai personaggi dell'Ifigenia: per essi potrebbe anzi valere come motto il verso dantesco:

Trasmutabile son per tutte guise.

E nessun dubbio che questa mutabilità importi uno stemperamento del carattere tragico; ma importa insieme un incremento d’umanità, e rende possibili effetti patetici che toccano profondamente i cuori. Dice Agamennone: «Mi vergogno di piangere, e poi mi vergogno di non piangere». Ed è espressione indimenticabile. Dice Menelao:

                         allor ch’io vidi
il pianto che dagli occhi a te sgorgava
sentii pietà, versai lagrime anch’io,
e ciò che ho detto lo rinnego.

Diminuzione di tragicità? È stato detto, massime dai critici francesi. Ma tanto maggiore ne riesce l’umanità (critici ultramoderni, scacciatela dalla porta, rientra dalla finestra). E la figura, antipatica, o, per lo meno, anodina, di Menelao, quasi ne riesce simpatica; homo sum nihil humani a me alienum puto.

Euripide - Tragedie, IV - 6