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Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) IV.djvu/88

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IFIGENIA IN AULIDE 85

rimanere: in cosí gran periglio, non conviene una eccessiva ritrosia.

Rinunciare alla ritrosia è per una fanciulla piú amaro che rinunciare alla vita. Pure, Ifigenia rimane. Il destino è il destino. Ma in poco tempo, a quale durissima tempera ha dovuto sottostare il suo povero cuore. Se non s’è spezzato, vuol dire che era cuore ben valido.

E intanto apprende che tutto l’esercito degli Achei sta movendo contro di lei, che Uiissei ha giurato di afferrarla per le bionde trecce, e di trascinarla cosí all’altare. Pare che tutte le furie dell’universo si scatenino contro la dolce creatura vigilata sino a ieri e curata come un fragile fiore.

E qui si compie il mutamento, repentino in apparenza, e in realtà preparato e graduato con somma perizia e con somma intuizione del cuore umano, del cuore d’una fanciulla e d’una fanciulla regale.

Perché ella è pur sempre del medesimo sangue di Clitemnestra e d’Elettra. Sangue di re. La sua fronte non si umilierà mai dinanzi ad alcuno. E qui non c’è che una via di uscita: rispondere alla ferocia con la fierezza. Essa moverà intrepida alla morte: sulla sua persona doppiamente sacra, nessuno avrà pretesto di metter la mano1.

Il declinare dell’altezza del linguaggio tragico da Eschilo a Sofocle, e da questo ad Euripide, è fatto piú che palese, e rilevato da tutti, dall’antichità ai dí nostri. In talune tragedie

  1. A chi abbia bene intesa questa mirabile concezione, quanto non sembra freddo e scolastico l’appunto di Aristotele che non sa vedere in Ifigenia altro se non un esempio di anomalia di carattere (Poetica, 5). E quanto incongrua la solidarietà di qualche filologo moderno.