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averli invitati, e lo manda a cercar provviste, e tutto senza economia di particolari, ci vien fatto di pensare che davvero la corda tragica sembra troppo rallentata, e che non fossero destituite d’ogni fondamento le acerbissime critiche di Aristofane.

E cosí, pare che qualche volta, veramente, il tòno del linguaggio declini troppo. «Donde ti giunge — chiede Oreste ad Elettra — questo rudere d’uomo?» — «Pare — dice quando il vecchio lo osserva — che scruti il bollo dell’argento». C’è l’ombra della commedia.

E poi la logica diventa sofistica, e cosí, non di rado, involontariamente comica. «Se — dice Clitemnestra per togliere ogni attenuante allo scempio d’Ifigenia — avessero rapito Menelao, io avrei forse dovuto uccidere Oreste?» — Ora, con questa ipotesi di un «ratto di Menelao», siamo nella parodia, a momenti nella farsa.

Naturalmente, i vantaggi della concezione borghese, che nelle figure tragiche rimangono mortificati e menomati, assumono nelle figure medie il loro pieno valore.

Cosí, è figura artisticamente perfetta, sebbene affatto secondaria, il vecchio servo salvator d’Oreste pargolo, che giunge a recar le provviste chieste da Elettra.

E addirittura meraviglioso Auturgo. Superfluo aggiunger parole al concorde coro d’ammirazione che i critici levaron sempre, giustamente, per questo personaggio. Non solo è il piú simpatico dell’Elettra, ma è anche, nel teatro d’Euripide, l’unico immune da macchie.

Il poeta che per eccessivo amore di analisi va a scoprir la fodera dei sentimenti anche piú generosi, che non sa resistere alla tentazione di gittare qualche ombra anche sulla divina figura di Alcesti, di fronte a questo campagnuolo rinuncia a