Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) VI.djvu/282

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IL CICLOPE 279

ceppi d’eccelsa quercia, una catasta
da portarla tre carri, e accese il fuoco,
e ci mise a bollire una caldaia
di bronzo; e accosto al fuoco, a farne un letto,
stese frasche d’abete. E le giovenche
poi munse, e riempí di bianco latte
un secchio che tenea dieci boccali,
ed una tazza d’ellera vi pose
presso, larga tre braccia e fonda quattro,
e rami di verruca, a mo’ di spiedi
lisciati con la falce, e resi duri
in cima sopra il fuoco, e scannatoie
col morso della scure arrotondate.
Poi, quando tutto pronto fu, l’atroce
cuoco d’inferno, afferrò due de’ miei
compagni, e li ammazzò: questo nel cavo
d’un bacile di bronzo; e quello, presolo
per un calcagno, lo sbatte’ sull’aspra
sporgenza d’una rupe, e gli schizzò
fuori il cervello; e, fatto a brani il corpo
con un ferro affilato, ne gittò
parte a lessar nella caldaia, e parte
ne mise ad arrostire. Io, sciagurato,
versando pianto da queste pupille,
stavo accanto al Ciclope, e lo servivo:
gli altri, senza piú sangue nelle vene,
stavano rimpiattati come uccelli
negli anfratti dell’antro. Or, poi che gonfio
fu della carne dei compagni, e cadde
rovescioni, emettendo un fiato greve,
qualche Dio m’ispirò: colma una coppa
di vin maronio, glie l’offersi, e dissi:
«Figlio del Dio del mar, Ciclope, vedi