Pagina:Trattati d'amore del Cinquecento, 1912 – BEIC 1945064.djvu/59

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i - il raverta 53


a disporvi di servirlo un tempo, ma di consumar seco tutto il viver vostro. Sì come fa l’onorato messer Pompeo Zazzo, il quale molto ben conosce quanto vaglia l’illustrissimo signor Vicino, e però gode nell’assidua servitú, che gli fa molto piú, che non farebbe alcuno a comandare altrui. Ma siate certo che son rari. Sapete in qual modo vi consiglierei a provar la corte? Quando vi trovaste in termine di poter fare senza le mercedi loro, e, mantenendovi di vostro, corteggiare chi piú vi paresse degno dell’amicizia vostra. Allora sì, che potreste sperare qualche cosa, perché, qualora i reverendissimi non spendono di suo, amano e, comeché suo malgrado, s’obligano a chi si degna onorargli. Chè bene hanno a caro le servitú, ma non a spese loro. E cosí potreste aver commodo ed agio di conversare a piacer vostro con molti virtuosi ch’ivi sono; come sarebbe un pari del reverendissimo monsignor Leone Orsino, prelato dignissimo e signor senza difetto; il signor Maerbale Orsino, carissimo fratello del mio signor Vicino, veramente degno d’imperio. Potreste allora godere della dolcissima conversazione del divin Molza, del magnifico Capello, del dottissimo Claudio Tolomei e del mirabile Annibal Caro, e d’altri infiniti. Altrimenti è da fuggirla chi può. Perché, come dice l’Aretino, la corte ebbe prima il nome di ‛morte’ ma, perché il vocabolo era troppo orrido, cangiarono, per farla meno spaventevole, la prima lettera in un ‛c’. Ed è purtroppo vera la invenzione, ché con la speranza che vi si va, per lo piú si ritorna, o vi si muore».

Raverta. Sì, per Dio.

Domenichi. «Ma chi ben considera ciò che vi si contiene a dir ‛corte’ conoscerá che il meglio ch’abbia in sè è il rendere corta la felicitá dell’uomo e lunga la miseria. Onde io vi do quel consiglio che per me toglio, ed osserverollo piú che mai potrò. Lasciatela provare ad altri; perché si può assomigliare al giuoco: che se uno vince, quattro perdono; e se uno per mezzo di quello si vede esser fatto ricco, mille ne sono ruinati ed impoveriti. Mi potreste dire: — Che posso perdere io? Quello, che nemica fortuna m’ha tolto, non giá. — Assai, e non poco, avete da perdere; ché, essendo ora dotato di rare qualitá, usando