|
libro secondo — cap. iii. |
53 |
facoltà non sieno a comune; ma per cagione della cattività degli uomini. —
Conciossiachè e’ si possa vedere in discordia molto più coloro, che hanno le possessioni in comune, che non sono quegli che l’han dispersè. Ma ei s’intende ben meno, che tali combattino insieme a comparazione di quei che hanno le facoltà proprie, che sono assai. Ma e’ non s’avrebbe a raccontar solamente di quanti mali fossin privati i comunicanti nelle facoltà; ma ancora di quanti beni e’ mancassino. Che invero a me pare, che tal modo di vivere abbia dell’impossibile. E io stimo che la cagione di un simile errore di Socrate fosse la sua falsa supposizione; perchè la città e la casa debbono essere una in certo modo; ma non interamente. Imperocchè ella potrebbe riuscire per tal verso in luogo, ch’ella non sarebbe città; e forse in luogo, ch’ella sarebbe città, ma peggio, che se ella non fosse; non altrimenti che se uno d’una consonanza volesse fare una voce unisona, o del verso volesse fare un solo piede. —
Ma e’ si debbe (siccome io ho detto innanzi) d’una moltitudine di cittadini farne una sola cosa, e comune per via della erudizione. Ed è bene disconvenevole a credersi, che uno che voglia introdurre leggi in una città di poter per via di quelle di Socrate fare la città sua migliore, che per via dei costumi e della filosofia, e dell’altre leggi; siccome fece comuni le facoltà in Lacedemone, e in Candia il datore delle leggi per via del mangiare insieme. Nè questo ci debba essere nascosto, che a voler sapere se un ordine è buono o cattivo, e’ bisogna osservarlo in più tempo e in molti anni; che tutte l’usanze invero sono state trovate; ma parte d’esse non sono state indotte; e parte non sono state usate da chi n’ha fatto esperienza. Ma quello che io ho detto, ci si farebbe manifestissimo, se e’ fosse possibile di vedere