Pagina:Tre tribuni studiati da un alienista.djvu/48

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Fece distruggere tutte le armi dei nobili sui palazzi, sugli equipaggi e sulle bande, non dovendosi avere in Roma altra signoria che quella del Papa e la sua.

Ristabilì una tassa di 1 carlino e 4 denari per fuoco in ogni villa e città del distretto di Roma, e fu obbedito sino dalle comunità di Toscana, che potevano addurre pretesti per esimersene — ed i ricevitori non bastavano alla bisogna — e tutti i governatori (meno due) si sottomisero, e persino istituì una specie di giudice di pace, di conciliatori, anche per le questioni penali.

Fece anche di più. Immaginò, egli, primo, quanto nemmeno Dante aveva pensato: un’Italia che non fosse Guelfa, nè Ghibellina, con a capo il Comune di Roma, in cui, primo, in Italia, come il contemporaneo Marcel a Parigi, tentò di radunare (e non fu compreso che da 35 Comuni), un vero Parlamento nazionale1.

Trasportato, infine, in Avignone seppe compiere la impresa che io credo maggiore di tutte l’altre; farsi, dopo tante opere e parole nemiche alla Corte papale, perdonare da coloro che non perdonano mai, i preti, e preti di quel secolo feroce ed implacabile, e farsi rimandare, benchè per poco, e benchè in posizione subalterna, ad un posto che avrebbe dovuto essere per essi la maggiore delle minacce2.

  1. Vedi Papencordt, Cola di Rienzo, 1844. — Gregorovius, Storia della città di Roma, VI, p. 267.
  2. Vi contribuì l’opinione pubblica facendone, nella sua ignoranza, come dice il Petrarca, un gran poeta; e quelli, bisogna pur dirlo, erano tempi in cui si aveva un maggiore rispetto delle opinioni che non forse ai nostri.
    Chi più disse male dei tiranni italiani, romani in ispecie, di