Pagina:Troya, Carlo – Del veltro allegorico di Dante e altri saggi storici, 1932 – BEIC 1955469.djvu/373

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fatto cenno di tal papa, né l’avesse mai «tocco dell’ira sua», (Vita di Dante, p. 253); ricorda, quindi, il De Leonardis, che le battaglie date precedentemente da Federico II, da Manfredi e da Farinata degli Uberti non erano valse a riformare la Chiesa, e dice che «a disingannare o a far ricredere prima il Troya e poscia il Balbo, avrebbe dovuto bastare quell’unico verso: Questi (cioè questo simbolico veltro) non ciberá terra (ossia territorio o dominio temporale) né peltro (danaro). Or, che principe sarebbe stato costui senza principato e senza mezzi pecuniari? Sarebbe stato un miserabile; e tale non fu mai quell’Uguccione della Faggiola, cui sarebbe stata dedicata la prima cantica. La opinione che il veltro fosse un duce di parte ghibellina, adunque, non reggendo al lume della critica storica, ora dominante, cade; né piú varrebbero i nomi di due istoriografi insigni per tornarla in onore o per farla risorgere; essa è morta e sepolta, senza speranza di resurrezione... Ed un’altra considerazione avrebbe dovuto far avvertito il Balbo che il suo Troya era in errore. A chi, di fatto, Cristo avea conferito la potestá di sciogliere e di legare, e però di respingere la colpa nell’inferno, lá onde invidia prima dipartila se non a Pietro, e, quindi, al papa, suo successore?... Se il Troya prima e il Balbo poi, scambiandolo con un duce, perciò equivocarono nella interpretazione, ciò non si potrá certamente imputare a Dante, che vuol essere studiato piu seriamente ancora, e con animo superiore ad ogni umano riguardo, tutto obbiettivamente ne’suoi tempi e nell’anima sua»b).

Ma Vittorio Cian pubblicava l’anno dopo uno studio Sulle orme del veltro (*), in cui affermava: «Ormai, dileguatasi quella schiera di pretendenti o di candidati, i dantisti sono d’accordo nell’ammettere che l’Alighieri non poteva avere dinnanzi alla mente, sin da principio e sempre, una persona ben determinata; che, invece, egli dovette vagheggiare un tipo ideale, astratto, indeterminato di futuro liberatore, quasi novello redentore del mondo dai peccati che lo traevano «a triste ruina», primo di tutti l’avarizia — cupidigia di papi e di principi e di comuni, cagione di disordine religioso e morale e politico —; non si per altro che, a (1) G. De Leonardis, Figure dantesche, in Giornate dantesco, III, 1896, r- 3S4 e segg. (2) Messina, Principato, 1897.