Pagina:Troya, Carlo – Del veltro allegorico di Dante e altri saggi storici, 1932 – BEIC 1955469.djvu/387

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livellari, ed inoltre gli affrancati, ed i maggiori artefici nelle cittá, formarono quello che si chiamerebbe terzo stato, e del quale pare al Trova di rinvenire le tracce nell’etá di Liutprando». Fin qui nella prima lettera; nella seconda dice che ai vinti romani «non può assegnarsi che uno stato intermedio tra libertá e servitú». Non crede però che la prova del non essere gli italiani liberi si debba dedurre dalla mancanza d’un guidrigildo per loro fissato dalla legge; crede invece «che i longobardi intorno alla condizione degl’italiani non provvedessero legalmente nulla». Dice che «tra gl’italiani le relazioni private di famiglia e di possesso, le case rurali e le usanze cittadinesche si governavano sempre come per l’addietro»; ricorda punti di leggi longobarde ove s’accenna a legge diversa, e non gli sembra che «altra potesse essere che la legge romana». Contrariamente al Troya, ritiene che i guargangi non fossero solo romani, ma anche rimasugli di orde barbariche venuti tratto tratto dalla Germania; e per lui la famosa legge degli scribi è un riconoscimento, non una formale introduzione del gius romano. E per quanto riguarda i giudici che la legge romana applicassero, dice «che è verosimile rimanesse un qualche simulacro delle prische forme, per le quali si eleggessero privatamente que’giudici inferiori; o che in luogo di questi fossero degli arbitri, rendendosi allora piú che mai frequenti i giudizi arbitrali de’ vescovi». Il Capei 0, a proposito del passo di Paolo Diacono, risponde che, virgoleggiandolo nel seguente modo: populi tamen, aggravati per langobardos hospites, partiuntur, egli lo spiega «come il Gibbon e molti altri i quali eransi fatti a interpretarlo; cioè, i popoli per altro (i tributari) aspreggiati con avarie piú gravi (aggravati) dagli ospiti longobardi, partirono; che è quanto dire, si videro costretti a partire o dividere le loro terre e pertinenze con quegli ospiti maledetti». E trae dalla prima questione che tratta «la conclusione: i° che tutti i liberi e cittadini romani d’ogni condizione, scampati alla furia o alla aviditá de’ longobardi, durassero ad esser liberi della persona, e non giá divenissero né aldi né censili; o vogliam dire presso che servi. Nondimeno la loro libertá fu per dignitá inferiore a quella dei longobardi; libertá di sudditi o provinciali, non giá di concittadini al popolo i P Capei, Sulla dominazione dei longobatdi in Italia, in Arch. stor. cit., app, II, Firenze, 1S45.