Pagina:Turco - Canzone senza parole.djvu/149

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Erano i tempi antichi quando la selva fetontèa si stendeva sulle spiagge dell’Adriatico, quando i primi Veneti scorrazzavano a cavallo lungo le dune e le verità della storia non avevano ancora profanata la poesia agreste e marinaresca della leggenda. Poi vedevo tutte le età, dalle più gloriose alle più tristi e quella poesia sopravvivente di ricordi e di rimpianti esaltava con uno spasimo nuovo la mia mente eccitata.

Non ebbi una nozione giusta del tempo. L’albergo Danieli mi teneva incatenato in una concentrazione febbrile, come se dovessi vegliare sul sonno di mia madre.

Una nebbia densa era scesa sulla laguna e l’aurora s’annunziava muta e malinconica. S’intravedevano nella fitta caligine, con forme e linee incerte i campanili, i palazzi, gli alberi delle navi; l’acqua aveva preso un aspetto strano di piombo in fusione; i battelli, solcandola, sembravano rimestare un liquido incandescente e ridestarne l’ardore nascosto sotto l’opaca superficie. A tratti, pareva ch’emergessero, dalle onde, delle lamine d’argento, dei tersi frammenti di specchio e i gabbiani, inquieti, si tuffavano voluttuosamente in quel luccichio, agitando le candide ali. Ma il sole che sorgeva pallido e scialbo, a somiglianza d’una grande luna, all’improvviso trionfò, come uno squillo di tromba sopra una placida orchestra; il grigio velario si sciolse e l’incantevole città uscì da quella fumante atmosfera con un abbagliamento