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250 impressioni e ricordi di bayreuth


Wotan, che dopo l’amara perdita di Brunilde ha rinunziato al potere per diventare un passivo e malinconico viandante della terra penetra e si trattiene, ancorché male accolto, nella caverna di Mime e messo a pegno per tre enigmi il proprio capo, poi in rivincita quello del Nibelungo, facendogli grazia dell’ultimo insoluto indovinello, glielo spiega egli stesso, con profonda intenzione: «Temprare la spada di Sigmundo potrà soltanto colui che ignora la paura» Mime angustiato dalla prossima minaccia, tenta indarno, al ritorno del giovinetto, d’infondergli nell’animo la viltà, onde non esserne vinto, e dipingendogli con una viva descrizione musicale i tremiti, i sussulti della paura gliene suscita in cuore il desiderio, come di cosa nuova, e lo eccita a recarsi nell’antro ove Fafner in forma di drago immane veglia il suo tesoro e meglio d’ogni altro della paura potrà essergli maestro.

Sigfrido accetta la proposta ma a condizione di portar seco l’arma paterna e come Mime è impotente a ridurla allo stato primo, egli stesso vi si accinge con lena febbrile.

In questa scena ove spiccano come gemme le due canzoni di Sigfrido quella della fusione e quella dell’incudine, v’ha una bellezza, una semplicità antica. Ardono i carboni e il giovane fabbro agita rapido il mantice, il metallo si fonde, il fuoco divampa, e la verga arroventata si vien riformando sotto il sicuro e sapiente martello del geniale artefice.

Mime intanto, aggirandosi per l’officina, con quel suo passo incerto e barcollante che la musica ha già sì bene imitato, prepara una venefica bevanda della quale si varrà per isbarrazzarsi del giovinetto, appena ottenuti gli avidi suoi intenti.

Ma già l’arduo problema è sciolto, il lavoro é presso a compiersi, la spada memorabile che Sigmundo trasse dal tronco di frassino col fatidico nome di Notung è ricomparsa nella sua prima forma, l’ardente entusiasmo di Sigfrido erompe in festosi accordi, egli solleva trionfante l’arma temprata e ne colpisce l’incudine del Nibelungo che si spezza e rotola con gran fracasso al suolo. Il paesaggio del second’atto rappresenta una fitta boscaglia, dinanzi all’antro di Fafner. Accovacciato sopra una roccia, Alberico sta cupamente meditando nel buio della notte.

Un bagliore, un ritmo speciale nell’orchestra ci annunziano la presenza di Wotan. Difatti il dio s’avvicina, sempre ancora sotto le spoglie di viandante, ed è tosto riconosciuto dal Nibelungo che gli scaglia contro le piú feroci invettive, ma senza mai smentire la sua calma olimpica, la sua ‘missione d’osservatore non d’attore, egli rabbonisce il sinistro avversario e lo rende accorto che, se un eroe é presso a vincere Fafner, quello che agognerà all’oro, non darà già l’uccisore del drago, bensì il suo astuto fratello Mime che congiura nell’ombra. Anzi egli desta Fafner dal suo letargico sonno, e, avvertendolo del pericolo che gli sovrasta, gli offre il soccorso d’Alberico se a questi vorrà cedere il tesoro.

Il soporoso Gigante si rifiuta chiedendo pace a Wotan se ne ride e scompare con un buffo di vento. Alberico si nasconde per origliare e alla luce dell’alba nascente entra Mime conducendo seco Sigfrido nel quale tenta ancor sempre, ma indarno, d’infondere la paura, e che disgustato della sua tempra insidiosa, finisce per iscacciarlo col massimo disprezzo.

Rimasto solo, per attendere, il giovinetto si compiace di trattenersi nella silvestre solitudine e il suo spirito si mette in comunione diretta colla natura che gli rivela i suoi piú intimi segreti. E qui comincia, per diffondersi su gran parte dell’atto, come il fremito d’una foresta magica, quella potente descrizione musicale detta Woldweben che Wagner, per il primo, produsse staccatamente con altri brani della Trilogia e che ora spesso ingemma anche i nostri migliori concerti.

Né poeta, nè pittore ebbe familiari come il grande artista alemanno i misteri del creato, nessuno ritrasse con maggiore evidenza. la poesia degli elementi.

Ammiratore entusiasta della natura, ascoltatore ed osservatore profondo, egli ha veduto con occhio penetrante il valore dei colori nella grande armonia dell’insieme, egli ha percepite con orecchio sottile le multiple voci che formano l’universale accordo, dal gorgheggio d’un uccellino, allo serosciare del tuono, dal leggero bisbiglio della brezza, all’infuriare dei venti. Egli ha compreso il murmure dei ruscelli, la vita misteriosa dell’acque, la grandezza delle bufere, s’è intenerito dinanzi alla delicata tenuità dei fiori. Seduto all’ombra d’un immenso tiglio, Sigfrido ascolta le voci della foresta che gli rivelano cose nuove, che lo fanno pensare alla madre sconosciuta e col tenero ricordo gli suscitano nella vergine anima un timido desiderio della donna e dell’amore. La musica interpreta e spiega le rimembranze vaghe, le aspirazioni nascenti del giovinetto; il tema delle Valchirie e la dolce melodia del sonno evocano l’immagine di Brunilde della dormente vergine che aspetta sulla roccia circondata di fiamme un ardimentoso liberatore. E ancora cresce, per dilagare poi in una potente sonorità istrumentaleil largo fremito della foresta.

Sempre piú acute si fanno le percezioni di Sigfrido, adesso è il semplice canto d’un uccello che lo colpisce nei sapienti trilli del flauto, e che gli sembra contenere un alto significato. Nella speranza di comprenderlo meglio, coll’imitazione, egli taglia una canna alla sorgente, costruisce uno zufolo e tenta rivaleggiare coll’alato cantore, ma la prova non riesce e, sec-