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60 ultime lettere d’jacopo ortis.

orribile sembra la bocca di una voragine. Nella falda del mezzogiorno l’aria è signoreggiata dal bosco che sovrasta e offusca la valle dove pascono al fresco le pecore, e pendono dall’erta le capre sbrancate. Cantano flebilmente gli uccelli come se piangessero il giorno che muore, mugghiano le giovenche, e il vento pare che si compiaccia del susurrar delle fronde. Ma da settentrione si dividono i colli, e s’apre all’occhio una interminabile pianura: si distinguono ne’ campi vicini i buoi che tornano a casa; lo stanco agricoltore li siegue appoggiato al suo bastone; e mentre le madri e le mogli apparecchiano la cena alla affaticata famigliuola, fumano le lontane ville ancor biancicanti, e le capanne disperse per la campagna. I pastori mungono il gregge, e la vecchiarella che stava filando su la porta dell’ovile, abbandona il lavoro e va carezzando e fregando il torello e gli agnelletti che belano intorno alle loro madri. La vista intanto si va dilungando, e dopo lunghissime file di alberi e di campi, termina nell’orizzonte dove tutto si minora e si confonde: lancia il sole partendo pochi raggi, come se quelli fossero gli estremi addio che dà alla natura; e le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e pallide finalmente si abbujano: allora la pianura si perde, l’ombre si diffondono su la faccia della terra; ed io, quasi in mezzo all’oceano, da quella parte non trovo che il cielo.

Jer sera appunto dopo più di due ore d’estatica contemplazione d’una bella sera di maggio, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla notte, ed io non sentiva che il canto della villanella, e non vedeva che i fuochi de’ pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra. Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de’ morti, e il presentimento della mia fine trasse i miei sguardi sul cimiterio dove ne’ loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa: — Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce — umana sorte! men infelice degli altri chi men la teme. — Spossato mi sdrajai boccone sotto il boschetto dei pini, e in quella muta oscurità, mi sfilavano dinanzi alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io corressi anelando alla felicità, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura dove io m’andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita. E mi sentiva avvilito e piangeva perché avea bisogno di consolazione — e ne’ miei singhiozzi io invocava Teresa.