Pagina:Vasari - Le vite de' piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-2, 1568.djvu/343

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Furlì quanto intorno a ciò voleva che facesse, onde egli scrisse al Vasari a dì tre di settembre l’anno 1561, che volendo il Papa finire l’opera della sala de’ re, gl’aveva commesso che si trovassero uomini, i quali ne cavassero una volta le mani, e che perciò, mosso dall’antica amicizia e d’altre cagioni, lo pregava a voler andare a Roma per fare quell’opera, con bona grazia e licenzia del Duca suo signore; perciò che con suo molto onore et utile ne farebbe piacere a Sua Beatitudine, e che acciò quanto prima rispondesse. Alla quale lettera rispondendo, il Vasari disse che, trovandosi stare molto bene al servizio del Duca et essere delle sue fatiche rimunerato altrimenti che non era stato fatto a Roma da altri pontefici, voleva continuare nel servigio di sua eccellenza per cui aveva da mettere allora mano a molto maggior sala che quella de’ re non era, e che a Roma non mancavano uomini di chi servirsi in quell’opera. Avuta il detto vescovo dal Vasari questa risposta, e con Sua Santità conferito il tutto, dal cardinale Emulio, che novamente aveva avuto cura dal Pontefice di far finire quella sala, fu compartita l’opera, come s’è detto, fra molti giovani, che erano parte in Roma e parte furono d’altri luoghi chiamati. A Giuseppe Porta da Castel Nuovo della Carfagnana, creato del Salviati, furono date due [del]le maggiori storie della sala; a Girolamo Siciolante da Sermoneta un’altra delle maggiori et un’altra delle minori; a Orazio Sammacchini bolognese un’altra minore, et a Livo da Furlì una simile; a Giambattista Fiorini bolognese un’altra delle minori. La qual cosa udendo Taddeo e veggendosi escluso, per essere stato detto al detto cardinale Emulio che egli era persona che più attendeva al guadagno che alla gloria e che al bene operare, fece col cardinale Farnese ogni opera per essere anch’egli a parte di quel lavoro, ma il cardinale non si volendo in ciò adoperare, gli rispose che gli dovevano bastare l’opere di Caprarola e che non gli pareva dovere che i suoi lavori dovessero essere lasciati indietro per l’emulazioni e gare degli artefici, aggiungendo ancora che quando si fa bene sono l’opere che danno nome ai luoghi, e non i luoghi all’opere. Ma ciò nonostante, fece tanto Taddeo con altri mezzi appresso l’Emulio, che finalmente gli fu dato a fare una delle storie minori sopra una porta, non potendo, né per preghi o altri mezzi, ottenere che gli fusse conceduto una delle maggiori. E nel vero dicono che l’Emulio andava in ciò rattenuto perciò che, sperando che Giuseppo Salviati avesse a passare tutti, era d’animo di dargli il restante e forse gittare in terra quelle che fussero state fatte d’altri. Poi dunque che tutti i sopra detti ebbono condotte le lor opere a buon termine, le volle tutte il Papa vedere; e così fatto scoprire ogni cosa, conobbe (e di questo parere furono tutti i cardinali et i migliori artefici) che Taddeo s’era portato meglio degl’altri, come che tutti si fossero portati ragionevolmente; per il che ordinò Sua Santità al signor Agabrio, che gli facesse dare dal cardinal Emulio a far un’altra storia delle maggiori. Onde gli fu allogata la testa, dove è la porta della capella Paulina, nella quale diede principio all’opera, ma non seguitò più oltre, sopravenendo la morte del Papa e scoprendosi ogni cosa per fare il conclave, ancor che molte di quelle storie non avessero avuto il suo fine. Della quale storia, che in detto luogo cominciò Taddeo, ne abbiamo il disegno di sua mano, e da lui statoci mandato, nel detto nostro