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506 SECONDA PARTE

quello. E perchè egli avviene il più delle volte che ognuno loda volentieri gli ingegni di casa sua, cominciarono questi bolognesi con Raffaello a lodare l’opere, la vita e le virtù del Francia; e così feciono tra loro a parole tanta amicizia, che il Francia e Raffaello si salutarono per lettere. Et udito il Francia tanta fama de le divine pitture di Raffaello, desiderava veder l’opere sue; ma già vecchio et agiato, si godeva la sua Bologna. Avvenne appresso che Raffaello fece in Roma per il cardinal de’ Pucci Santi IIII una tavola di S. Cecilia, che si aveva a mandare in Bologna per porsi in una cappella in S. Giovanni in Monte, dove è la sepoltura della beata Elena dall’Olio; et incassata, la dirizzò al Francia, che come amico gliela dovesse porre in sull’altare di quella cappella, con l’ornamento come l’aveva esso acconciato. Il che ebbe molto caro il Francia, per aver agio di veder, sì come avea tanto disiderato, l’opere di Raffaello. Et avendo aperta la lettera che gli scriveva Raffaello, dove e’ lo pregava se ci fusse nessun graffio che e’ l’acconciase e similmente conoscendoci alcuno errore come amico lo correggesse, fece con allegrezza grandissima ad un buon lume trarre della cassa la detta tavola. Ma tanto fu lo stupore che e’ ne ebbe e tanto grande la maraviglia, che conoscendo qui lo error suo e la stolta presunzione della folle credenza sua, si accorò di dolore e fra brevissimo tempo se ne morì. Era la tavola di Raffaello divina, e non dipinta ma viva, e talmente ben fatta e colorita da lui, che fra le belle che egli dipinse mentre visse, ancora che tutte siano miracolose, ben poteva chiamarsi rara. Laonde il Francia mezzo morto per il terrore e per la bellezza della pittura che era presente agl’occhi, et a paragone di quelle che intorno di sua mano si vedevano, tutto smarrito la fece con diligenzia porre in S. Giovanni in Monte, a quella cappella dove doveva stare, et entratosene fra pochi dì nel letto, tutto fuori di se stesso, parendoli esser rimasto quasi nulla nell’arte appetto a quello che egli credeva e che egli era tenuto, di dolore e malinconia, come alcuni credono, si morì essendoli advenuto, nel troppo fisamente contemplare la vivissima pittura di Raffaello, quello che al Fivizano nel vagheggiare la sua bella Morte, de la quale è scritto questo epigramma:

Me veram pictor divinus mentre recepit. Admota est operi, deinde perita manus. Dumque opere in facto defigit lumina pictor intentus nimium, palluit et moritur. Viva igitur sum mors; non mortua mortis imago si fungor quo mors fungitur officio.

Tuttavolta dicono alcuni altri che la morte sua fu sì subita, che a molti segni apparì più tosto veleno o giocciola che altro. Fu il Francia uomo savio e regolatissimo del vivere e di buone forze. E morto, fu sepolto onoratamente dai suoi figliuoli in Bologna, l’anno MDXVIII.