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— Ella dunque non crede all’amore! insistè Metelliani con cocciutaggine da milionario, e cercando di comprometterlo agli occhi di Velleda, poichè anch’egli era geloso di Alberto.
Questi gli piantò gli occhi negli occhi; e rispose ironicamente:
— L’argomento comincia ad annoiare coteste signore. Vogliamo fare una partita a carte piuttosto?
Il principe parve esitare; ma infine inchinò il capo, e lo precedette al tavolino. Mentre Alberti lo seguiva la Armandi gli disse piano:
— Alberto!
Egli non s’avvide dell’accento turbato e della parola confidenziale; la rassicurò con un sorriso contraffatto, e passò nell’altra sala.
I due giuocatori sedettero di faccia. L’Armandi, inquieta, venne ad appoggiarsi alla spalliera di una seggiola, mostrando prendere un grande interesse alla partita; Velleda non si tradiva, ma era inquieta anch’essa, e ronzava per la sala da giuoco con un’inquietezza che non sapeva padroneggiare. I due avversari, seduti in modo che quasi si toccavano, non alzavano gli occhi dalle carte; sembravano completamente assorti nel giuoco, e al lume delle candele erano pallidi.
Alberti giuocava come un uomo che ha la febbre, e che perde sulla parola. I suoi occhi fissavansi di tanto in tanto scintillanti sul volto del principe, che rimaneva impassibile, e all’ombra della ventola sembrava di marmo. Metelliani era troppo uomo di mondo per dare ad Al-