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sulla tortura. 13

racconto, o come diceva allora il giudice, detta la verità, in prima rispose di attribuirlo a un’acqua che gli diede da bere il barbiere, la qual acqua perché poi non operasse nel terzo esame, siccome aveva fatto ne’ due primi, nessuno lo ricercò.

Su questi fondamenti si passò a far prigione il barbiere Gian-Giacomo Mora; e quello che pure meritava osservazione fu, che lo colsero in sua casa fra la moglie1 e i figli (in quella casa poi che venne distrutta per piantarvi la colonna infame). Dal primo esame del Mora risulta che eragli stata nota la vociferazione dell’unto fatto nel quartiere il giorno di venerdì, 21 giugno; che parimenti eragli nota la prigionia del commissario Piazza, seguita il giorno 22, che fu sabato; e al mercoledì, giorno 26, si sarebbe lasciato cogliere in sua casa se fosse stato reo? Tutto ciò che avvenne all’atto dell’arresto conferma l’innocenza, non meno che la sorpresa di quest’infelice. Egli aveva preparato pel commissario un unguento che fabbricava per preservarsi dal mal contagioso, ugnendosi le tempia e le ascelle; unguento di cui descrisse poi la ricetta, che in que’ tempi si conosceva sotto il nome di unguento dell’impiccato. Il commissario diede l’ordine al barbiere di prepararglielo, e fu fatto prigione prima che glielo consegnasse. Credette il Mora che la cattura fosse per aver egli fabbricato l’unguento, che era di pertinenza degli speziali. Si lagnava di esser legato per un simile motivo: se per sorte (dice egli mentre è arrestato in casa, prima di condurlo prigione) sono venuti in casa, perché io abbia fatto quell’elettuario e non l’abbia potuto fare, non so che farci; l’ho fatto a fine di bene e per salute de’ poveri; poi allo sbirro diceva: non stringete la legatura alla mano, perché non ho fallato; indi, sospirando e battendo un piede, esclamò: sia lodato Iddio!.

Nella minutissima visita fatta alla casa in presenza del Mora, egli rese conto de’ barattoli d’unguenti, d’elettuarj e d’altre polveri e pillole che gli si ritrovarono in bottega. Poi nel cortile della sua piccola casetta vi si osservò un fornello con dentro murata una caldaja di rame, nella quale si è trovato dentro dell’acqua torbida, in fondo della quale si è trovato una materia viscosa, gialla e bianca, la quale gettata al muro, fattane la prova, si attaccava. Chi mai crederebbe che un potentissimo veleno, che al toccarlo conduce alla morte, si tenesse in un aperto cortile, in una

  1. Dai libri parrocchiali di S. Lorenzo si vedono battezzate quattro figlie di messer Gian-Giacomo Mora e di Clara, cioè, 1616, ultimo gennajo, Anna; 1618, 29 gennajo, Clara Valeria; 1623, 12 gennajo, Teresa; 1624, 5 giugno, altra Teresa: onde è verisimile che l’antecedente fosse morta. Egli aveva probabilmente in casa l’ultima, che appena aveva compiuti i sei anni: se vi erano le due prime, una aveva compiuto gli anni 14, l’altra anni 12, ed è verisimile che fossero col padre.