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minavano con molta attenzione i progressi del lavoro, cui stava facendo il mio Disegnatore; e tanto erano lungi dal mostrare stupore o disprezzo, come usano di fare i nostri contadini, perchè io raccogliessi le pietre, che anzi davano a divedere un’onesta curiosità d’esaminarle anch’essi. Lusingò non poco il mio selvaggio amor proprio la sorpresa di quegli uomini nati, e indurati alla fatica pella mia agilità nell’arrampicarmi, e nello scendermi fra le balze; io mi sentii dire con estrema compiacenza da uno di essi esclamando: Gospodine, ti nissi Lanzmanin, tissi Vlàh! „Signore, tu non se’ un Italiano-poltrone, tu se’ un Morlacco!“ Vi confesso che sono stato più sensibile a questo epifonema, di quello potrò mai esserlo agli Elogj per lo più non sinceri degli uomini del gran Mondo. Il mio buon Morlacco erasi sfiatato nel seguirmi fra quelle balze, e parlava ben di cuore.
Poco più di mezzo miglio sotto la Velika Gubaviza, ricade il Fiume da un’altezza di venti piedi, poco più, poco meno, e forma la Mala Gubaviza, o sia la picciola cascata. Questa è un colpo d’occhio meno magnifico ma più teatrale. Il Fiume cade fra dirupati massi appiè del monte; egli spandesi poscia pella valle spaziosa fiancheggiata da colli selvosi, e dominata dalla montagna di Duare. L’ossatura di questa non è marmorea, benchè ne sia marmorea la cima; nello scendere al Fiume io vi osservai molte varietà di terre marine, ora più, ora meno indurate: la dominante è l’Argilla cenerognola, priva di sabbia1. Dal piè del mon-