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136 | libro secondo - prolegomeni - introduzione |
conoscere, di spiegar essi le sublimi da lor meditate cose in
filosofia con l’espressioni che loro n’avevano per ventura lasciato
i poeti. La quinta ed ultima, che val per tutte, per
appruovar essi filosofi le cose da essolor meditate con l’autoritá
della religione e con la sapienza de’ poeti. Delle quali cinque
cagioni le due prime contengono le lodi, l’ultima le testimonianze,
che, dentro i lor errori medesimi, dissero i filosofi della
sapienza divina, la quale ordinò questo mondo di nazioni; la
terza e quarta sono inganni permessi dalla divina provvedenza
ond’essi provenisser filosofi per intenderla e riconoscerla, qual
ella è veramente, attributo del vero Dio.
363E per tutto questo libro si mostrerá che quanto prima avevano sentito d’intorno alla sapienza volgare i poeti, tanto intesero poi d’intorno alla sapienza riposta i filosofi; talché si possono quelli dire essere stati il senso e questi l’intelletto del gener umano. Di cui anco generalmente sia vero quello da Aristotile detto particolarmente di ciascun uomo: «Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu», cioè che la mente umana non intenda cosa, della quale non abbia avuto alcun motivo (ch’i metafisici d’oggi dicono «occasione») da’ sensi, la quale allora usa l’intelletto quando, da cosa che sente, raccoglie cosa che non cade sotto de’ sensi; lo che propiamente a’ latini vuol dir «intelligere».