Pagina:Vico - Autobiografia, carteggio e poesie varie, 1929 - BEIC 1962407.djvu/326

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ioo E cosi crudi scempi e acerbi affanni

non m’hanno in quel che i’ era ancor disciolto. Ah, che daranno tempo al fato rio che meglio studi ’1 precipizio mio; se non è forse che la morte avara 105tema col mio morir farsi piú amara!

Mi venne sol da luminosa parte del cielo una vaghezza di destare a’ piè de’ faggi e poi de’ lauri a l’ombra la bella luce che fa l’alme chiare, no eh’ a la povera mia si spense in parte

quando se ’ndossò ’l velo onde s’adombra: talché, d’alto stupor finor ingombra, parea a se stessa dir: — Lassa! chi sono? — Oimè! eh’ a tal desio travaglio come 115debbami dar il nome;

ma sempre ’l chiamerò pena e non dono, se affligge piú chi piú conosce il male.

Oh inver beati voi, ninfe e pastori, cui sa ignoranza cagionar contenti,

120ch’obliati sudor, fatighe e stenti

acquetar vi sapete a un dono frale o di poma o di latte over di fiori ; ed al caldo ed al gel diletto e gioco vi reca l’ombra fresca e ’l sacro foco;

125né altra gioia a voi sembra che piaccia che rozzo amore o faticosa caccia!

Ma qual piacere i’ seguo, afflitto e lasso, fra tanti strazi abbandonato e solo, ne la misera mia vita che meno?

130che fatto son noioso incarco al suolo,

anco infecondo, dove ’l tronco e ’l sasso, come in suo centro, han la lor quiete. Almeno il mio piacer e’ fosse il venir meno; ma ’l fato me ’l disdice. Or, se mi serbo 135sempre a novi sospiri e a pianti novi,