Pagina:Vita di Dante.djvu/643

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dire, che parte di quest’anno 1311 ei passasse a Forlì, se abbiamo a credere a Pellegrino Calvi, che dice aver copiata una epistola di lui, di là scritta in nome degli esuli fiorentini a Cane della Scala, dov’era narrato l’infelice successo degli ambasciadori d’Arrigo ai Fiorentini1. Di là, poi, pare che venisse con gli altri fuorusciti e con Uguccione a Genova. Ma i Genovesi erano stati vituperati da lui in su quel fine dell’Inferno dove ei raddoppiava le invettice contro le città d’Italia; e fra i Genovesi, Branca Doria (ora potentissimo e quasi signore della città) v’era stato vituperato con quell’invenzione (la più atroce forse fra quante ne partorì l’ira di Dante), per cui, vivo quello e potente, era pure stato messo dal Poeta nel più profondo baratro dell’Inferno, la Tolommea, tra i traditori del proprio sangue, per avere, dicevasi, ucciso il proprio suocero Michele Zanche. Nel corpo vivente di lui avea supposto il Poeta fosse rimasto un demonio. "Io credo," rispondeva colà Dante a un frate Alberigo da Faenza, altro peccatore che gli avea nominato il Doria,

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  1. Veltro, p.125.