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XXXVIII

L’UOMO DI SUA NATURA INFELICE

Ond’ è che il guardo estatico
languidamente aggiri,
e sul tuo labbro accoppiansi
le voci ed i sospiri?

Ond’ è che al tenue sibilo
d’un zefiíro scherzante
ne l’ ima valle acceleri
le timorose piante?

Perché tranquillo e placido
mi vuoi quaggiú — Tuoni dice, —
se nacque il triste genere
ad essere infelice?

Fieri aquilon sospingono
per l’alto mar crudele
di questa vita il debile
mio legno a gonfie vele.

E degli angor moltiplici
fra il nembo e la tempesta,
il combattuto spirito
ondeggia e mai non resta.

Stuol di pallenti coliche
l’ange, Topprime e snerva,
e de le febbri avventasi
la squallida caterva.

Ma piú fatale origine
il mio dolor nasconde:
oimè, quest’aure sannoia,
sannoia, oimè, quest’onde!

Dopo crucciosa nuvola
il sol di nuovo aggiorna,
ma fugge irreparabile
il tempo e non ritorna.

Troppo veloci accorrono
pallor, vecchiezza e gelo:
men da faretra scitica
rapido scocca il telo.