Pagina:Vittorio Adami, Varenna e Monte di Varenna (1927).djvu/123

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secolo xvi 115

pellania; che i sindaci della comunità don Lorenzo Serponti, don Giovanni Antonio Tenca, nel termine dei giorni ancora occorrenti per la festa del Natale dovessero riscuotere e ricuperare tutti i crediti legati e beni lasciati alla comunità, agli uomini e ai poveri di Varenna; che le elemosine fossero ogni anno raccolte e distribuite soltanto ai poveri non già a tutti indifferentemente come fino a quel tempo era stato solito usarsi: che, come richiese il rettore della chiesa D. Francesco de Sicis, i possidenti di Olivedo fino al luogo detto la Caravina, fossero obbligati a pagare la decima di sei denari per ogni pertica di terra posseduta, al rettore pro tempore; che Francesco Coronino de Serponte fosse obbligato a pagare al rettore la somma di lire quaranta imperiali per fitto dovuto alla Chiesa e già scaduto, in ragione di lire 10 imperiali all’anno.

Ordinò poi a Maestro Iacopo de Campione e a Benedetta de Mazzi sua concubina di non coabitare più insieme o avere altra conversazione sotto pena di scudi 25 d’oro da applicarsi alla fabbrica della Chiesa parrocchiale1.

Uno degli scopi che si prefisse il cardinale Borromeo fu quello di fare osservare in modo uniforme in tutta la diocesi l’antico rito ambrosiano. Ma la cosa non fu facile, perchè in varie chiese della Lombardia, e particolarmente in quelle già dipendenti dal patriarca di Aquileia, era in uso il rito aquileiese o patriarchino e sia il clero che la popolazione non indendevano di abbandonare la consuetudine2. Il rito patriarchino in fine, salvo in qualche cerimonia poco differiva dal rito romano.

Il rito patriarchino ed il rito romano erano in uso a Como, Monza, Varenna Arona, Treviglio e qualche altro paese. Le ragioni di questi diffenti riti, in paesi della stessa diocesi sono varie. Per Monza pare si debba risalire alla regina Teodolinda, che fondatrice della Chiesa di San Giovanni, si sarebbe accostata al rito romano o per compiacere Gregorio Magno pontefice col quale era in ottime relazioni, o per certa poca intelligenza che passava tra la regina stessa e l’arcivescovo di Milano3.

Riguardo a Varenna gli storici ammettono che il rito patriarchino sia stato importato nel borgo dagli abitanti dell’Isola Comacina, ma potrebbe anche essere che avendo questo paese avuto una certa dipendenza da Monza, come abbiamo già visto, abbia seguito le orme della Chiesa maggiore.

Scrive il Merzario che il rito patriarchino «aveva un proprio simbolo di fede, un rito avvicinantesi al romano antico, breviario e messali speciali, salmodie particolari e un canto corale di cui perdura qualche cantilena in qualche angolo del Friuli e della Carnia»,

  1. Archivio della Curia Arcivescovile. Visite pastorali.
  2. Rubeis. De sacris farviuli rito, pag. 443. carte 36.
  3. Aristide Sala, Dissertazioni sulla vita di S. Carlo. Capo I.