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i divoratori 13


— Oh, non si disturbi, — disse Valeria, — me lo può gettare!

Il giovane rise.

— Stia indietro, allora; se la tocca, le darà il raffreddore!

E con gesto allegro scagliò il cappello, che cadde floscio e molle ai piedi di Valeria.

— Dio, che roba! — disse lei, raccogliendolo; e con fronte turbata contemplò la guarnizione di tulle nero che pendeva madida e lamentevole dal bordo. — E adesso cosa ne faccio? Metterlo è impossibile. E se m’arrampico su per queste rive, così ripide e sdrucciole, non credo neppure di poterlo portare in mano...

— Ebbene, me lo torni a gettar qui, — disse il giovane ridendo, — e lo porterò io fino al ponte.

Allora ella, prendendolo ben di mira, gli gettò in pieno petto il pesante e malinconico oggetto; poi si avviarono, ognuno dalla sua parte dell’acqua, e camminarono così, sorridendosi da una riva all’altra. Sul ponte s’incontrarono e si stesero la mano.

— Mi spiace tanto per la sua trota, — disse lei. —

— Mi spiace tanto pei suo cappello, — disse lui.

E risero entrambi. Poi non seppero più che cosa dirsi.

Egli, allora, vedendole i riccioletti umidi sulla fronte bianca, e le fossette nelle guancie, soggiunse:

— E domani che cosa si metterà in capo... quando viene qui?

— Domani? — domandò lei, alzando due occhi ingenui.

— Sì, domani. Verrà, nevvero? — disse egli, ed arrossì un poco, perchè era assai giovane. — A quest’ora, vuole? — E guardò l’orologio. — Alle undici, dunque...

A quelle parole anche Valeria arrossì. Ma d’un rossore avvampante ed improvviso che poi le lasciò subito la faccia lattea di pallore.