Pagina:Vivanti - I divoratori, Firenze, Bemporad, 1922.djvu/330

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318 annie vivanti


Anni fa, quando la Gloria si era schiusa come un immenso fiore di luce innanzi a lei, e che, all’improvviso fragore del suo successo, tutti i poeti d’Italia erano venuti a felicitarla e ad adularla — Uno non era venuto. Quegli era il grande Cantore della rivolta, il Poeta pagano della nuova Roma. Egli era il Genio, il puro e formidabile Genio latino, ora glorificato, ora vituperato dall’impetuosa ed esaltata gioventù d’Italia. Viveva solitario e lontano dal mondo, sordo ai clamori che si facevano intorno al suo nome; disdegnoso di laudatori come di detrattori; impassibile dinanzi all’invettiva o all’acclamazione.

A trovar lui — dietro suo laconico consenso — Nancy stessa era andata. Un discepolo, lungo di barba e breve di parola, era venuto a prenderla, per condurla alla casa del Poeta, sulle mura d’una turrita città...

Era una vecchia casa; e davanti ad essa Nancy ricordava di aver veduto una sentinella che camminava in su e in giù col fucile sulla spalla. Nancy, allora, aveva riso frivola e stolta:

— Oh! il Poeta ha il soldato di guardia perchè nessuno gli rubi le sue idee! — aveva detto al discepolo.

Ma questi non aveva sorriso.

Poi ella era entrata sola in quella casa, perchè il discepolo non era invitato.

Lo spirito del Silenzio regnava sulla fredda e buia scala.

La porta le era stata aperta da una pallida serva trasognata, di cui l’unica missione al mondo pareva essere quella di non far rumore. Tre tacite donne, figlie forse del Poeta, le avevano detto con voci sommesse di prendere posto. Tutte avevano un’aria dolce e soggiogata come se vivessero giorno per giorno con qualche cosa che le struggesse, che le divorasse. E pareva che ne fossero contente. Esse esistevano unicamente per badare a ciò che il Genio non fosse disturbato.