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Errico passò l’ultima volta per il cortile: era sul finire della state, e l’ora del silenzio. Qualche soldato che, invece di dormire, aveva preferito impiegare il suo tempo a fare la pulizia degli arredi, lo salutò con voce in cui c’era un misto di congratulazione, e d’una certa invidia repressa. Un altro, che più d’una volta gli aveva fatto, di nascosto, il governo del cavallo e qualche altro serviziuccio, volle seguirlo sino alla porta, con gli occhi un po’ rossi di pianto. Poi gli chiese trepidante il permesso di dargli un bacio, e mormorò a un di presso queste parole: «Addio; chissà se ci rivedremo più. Ho altri tre anni da fare... felice lei, che va ad abbracciare la famiglia!»
Errico gittò un ultimo sguardo a quelle mura, e parve volerne raccogliere nello spirito l’impressione estrema.
Sotto la porta si teneva ritto il tenente: era di picchetto. Egli fece segno ad Errico di avvicinarsi: Errico obbedì; il soldato s’allontanò rispettosamente.
— Rodolfi, siete contento?
— Molto, signor tenente.
— Ricordatevi del vostro tenente; ma da ora in poi abituatevi a non considerarlo più come un superiore.