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Il patrizio scosse il capo e, dopo una pausa studiata, ripetè con ischerno:

— «Avete udito? Vi è qualcuno più grande del miglior Romano.» —

— «Ercole!» esclamò uno.

— «Bacco!» — gridò un altro.

— «Giove, Giove!» — tuonò la folla.

— «No,» — disse Messala, — «parlo di uomini.» —

— «Il nome, il nome!» — essi chiesero.

— «Lo dirò,» disse: — «E’ colui che alla perfezione di Roma ha aggiunto la perfezione dell’Oriente; è colui che al braccio del conquistatore sa sposare l’arte di godere.» —

— «Per Pol! Dopo tutto egli è un Romano ancora!» — esclamò uno. Vi fu uno scroscio d’applauso, e Messala continuò:

— «Nell’oriente, non abbiamo divinità: imperano solo Bacco, Venere e Fortuna, e la maggiore di esse è la Fortuna. Donde il nostro motto: Chi osa ciò che io oso?

Parole degne del Senato, degne della battaglia, degne massimamente di chi come me cerca il meglio e non teme, sfidandolo, il peggio.» —

La sua voce da declamatoria si fece più bassa e famigliare, senza perdere il conquistato ascendente.

— «Nella cassa forte della cittadella io tengo cinque talenti. Eccone le ricevute.» —

Dal seno della sua tunica estrasse un rotolo, e, gettandolo sul tavolo, proseguì fra religioso silenzio, bersaglio di tutti gli sguardi della sala.

— «Quella somma vi darà la misura di quanto io osi. Chi osa altrettanto? Silenzio! La posta è troppo grande? Ritirerò un talento. Che! Tutti muti? Andiamo: Tre talenti, solo tre; due, uno, — uno almeno, uno solo per l’onore del fiume sulle cui sponde siete nati! La Roma d’Oriente sfida la Roma d’Occidente. Suvvia: Il barbaro Oronte contro il sacro Tevere!» —

Agitò i dadi, aspettando.

— «L’Oronte contro il Tevere» — ripetè con enfasi sprezzante.

Nessuno si mosse. Allora buttò il bossolo per terra, e, ridendo, raccolse le sue ricevute.

— «Ah, ah! Per Giove Olimpico. Ora so che siete venuti a cercar fortuna in Antiochia, Cecilio!» —