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L'Aeropilo 223


di Londra era come un muro, una scogliera, una brusca pendenza di trecento o quattrocento piedi, una parete interrotta qua e là da terrazze, una facciata complicata e decorativa.

Il passaggio graduato dalla città alla campagna a traverso un’immensa spugna di sobborghi, tratto caratteristico delle città del XIX secolo, non esisteva più. Del circuito di Londra non restava più nulla all’infuori di alcuni spazii verdeggianti coperti d’alberi, un deserto di rovine, variopinto, rivestito d’un fitto bosco di piantagioni eterogenee che altre volte avevano adornato i giardini del distretto della città, e alcuni terreni coltivati. Una quantità di frondi avevano pure ricoperto le vestigia delle costruzioni di una volta, ma per la maggior parte questa specie di scogli, di rocche isolate s’inalzavano fra le antiche strade, piccole isole barocche in mezzo a quelle distese pianeggianti di verde e di bruno abbandonate a sè stesse da molti anni, e troppo massicce, forse, per poterne sbarazzare le vie, quelle vie percorse dagli enormi meccanismi agricoli del tempo.

La vegetazione di quel deserto ondulava e schiumava in mezzo ai muri crollanti delle case, e s’interrompeva ai piedi del recinto della città, in un flutto di rovi e di agrifogli, di cardi e di alte erbe.

Qua e là i fastosi palazzi di piaceri dominavano in mezzo ai miseri avanzi dell’epoca vittoriana e in direzione di essi, partendo dalla città, facevan capo alcune strade di funi. In quella giornata d’inverno quei palazzi sembravano abbandonati e così i giardini artificiali che sorgevano fra le rovine.

I limiti della città erano, a dir vero, così nettamente definiti che nei giorni passarti, allorché si chiu