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(825-826-827) | pensieri | 207 |
possiamo mai porre nei piedi e nella mente di un’altra specie (come nessun bruto), per concepire le idee ch’essa ha del buono, del bello, del perfetto e misurare quella specie secondo queste idee, le quali sono diversissime dalle nostre e non entrano nella capacità della nostra natura, e nel genere della nostra facoltà né intellettiva né immaginativa, né ragionatrice, né concettiva (826) ec. ec. (20 marzo 1821).
* An censes (ut de me ipso aliquid more senum glorier) me tantos labores diurnos nocturnosque domi militiaeque suscepturum fuisse, si isdem finibus gloriam meam, quibus vitam, essem terminaturus? nonne melius multo fuisset, otiosam aetatem, et quietam, sine ullo labore et contentione traducere? SED, NESCIO QUOMODO, ANIMUS ERIGENS SE POSTERITATEM SEMPER ITA PROSPICIEBAT, QUASI, CUM EXCESSISSET E VITA, TUM DENIQUE VICTURUS ESSET: quod quidem ni ita se haberet, ut animi immortales essent, haud optimi cuiusque animus maxime ad immortalitatem gloriae niteretar. Catone maggiore appresso Cicerone Cato maior seu de senectute, cap. ult., 23. Tanto è vero che il piacere è sempre futuro e non mai presente, come ho detto in altri pensieri. Con la quale osservazione io spiego questo che Cicerone dice, e quello che vediamo negli uomini di certa fruttuosa ambizione; dico quella speranza riposta (827) nella posterità, quel riguardare, quel proporsi per fine delle azioni, dei desiderii, delle speranze nostre la lode ec. di coloro che verranno dopo di noi. L’uomo da principio desidera il piacer della gloria nella sua vita, cioè presso a’ contemporanei. Ottenutala, anche interissima e somma, sperimentato che questo che si credeva piacere non solo è inferiore alla speranza (quando anche la gloria in effetto fosse stata maggiore della speranza) ma non piacere; e trovatosi non solo non soddisfatto, ma come non avendo ottenuto nulla e come se il suo fine restasse ancora da conseguire (cioè il piacere infatti