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il paradiso delle signore

calzoni e col panciotto a righe gialle e rosse. E l’ispettore Jouve, vecchio capitano pensionato, se ne stava là dritto in soprabito e cravatta bianca, con la sua medaglia, come una mostra di vecchia onestà, e accoglieva le signore con aria gravemente cortese, chinandosi verso loro per indicare le sezioni. Le signore sparivano nel vestibolo mutato in salotto all’orientale.

Fin dalla soglia, colpiva una meraviglia improvvisa, un’estasi, un rapimento. Era stata un’idea del Mouret. Pochi giorni innanzi aveva comprato in Oriente, a bonissimo patto, una collezione di tappeti antichi e nobili, di quei tappeti rari che fin allora si trovavano soltanto dai negozianti di curiosità e si pagavano un occhio: lui, invece, stava per inondarne il mercato, dandoli via quasi a prezzo di costo, contento di cavarne uno splendido addobbo che gli avrebbe attratto da sé solo nel magazzino l’alta clientela della gente di buon gusto.

Quel salotto orientale si vedeva fin dal mezzo della Piazza Gaillon: era tutto tappeti e portiere, disposti dai garzoni secondo ch’egli aveva ordinato. Nel soffitto, tesi, dei tappeti di Smirne, col fondo rosso, a disegni intricatissimi:

poi dalle pareti pendevano le portiere; quelle di Karamania e di Siria, a zig-zag verdi, gialli e rossi; quelle di Diarbekir piú comuni, rozze al tatto come una saia da pastore; e poi tappeti che potevano fare anche da portiere e da tende, i lunghi tappeti di Hispahan, di Teheran, di Kermancia, quelli piú larghi di Sciumaka e di Madras, strana fioritura di peonie e di palme fantasia trascorrente a briglia sciolta nel giardino dei sogni. Per terra, ricominciavano i tappeti della Mecca coi loro riflessi di velluto, i


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